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Il futuro della riabilitazione? Serve un paradigma, non nuove etichette!


Negli ultimi giorni mi sono imbattuto in un articolo dal titolo “Dove va la fisioterapia?”. Gli spunti erano interessanti, ma mi hanno portato a riflettere su un nodo che ritorna spesso: non tanto la definizione di riabilitazione – che esiste, ed è stata chiaramente formulata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso l’ICF – quanto il fatto che questa definizione sia ancora poco conosciuta e, soprattutto, spesso applicata in modo parziale o scorretto nella pratica quotidiana. Secondo l’ICF, la riabilitazione non coincide con il trattamento della malattia, ma con un processo finalizzato a migliorare la funzione, ridurre le limitazioni, favorire la partecipazione sociale e la qualità della vita. È un punto di riferimento prezioso, che colloca la fisioterapia in un ambito distinto rispetto alla medicina. Eppure, molti professionisti sembrano non riconoscere fino in fondo questa distinzione, continuando a interpretare la riabilitazione come la somma di tecniche manuali, manipolative o strumentali, applicate come se fossero la soluzione a “patologie” che spesso non sono tali.

Un esempio recente lo mostra con chiarezza: la sentenza della Cassazione che ha ribadito che il fisioterapista non può fare diagnosi medica. È stata una decisione corretta, che però ha riaperto un dibattito confuso sulla cosiddetta “diagnosi fisioterapica”. Il punto è semplice: medico e fisioterapista lavorano su piani diversi. La diagnosi medica riguarda la condizione nosologica; la diagnosi fisioterapica riguarda la finestra riabilitativa, cioè il modo in cui dolore, limitazioni e disfunzioni incidono sulla vita della persona e richiedono un processo di adattamento.

Probabilmente la causa di questa ambiguità va ricercata nel percorso formativo. Il triennio universitario oltre a presentare delle fragilità sul piano delle scienze di base, spesso poco aggiornate, si dimostra carente anche sugli strumenti tecnici di trattamento presentando approcci terapeutici spesso insegnati senza impianto anatomo-fisiologico. La laurea magistrale, per come è strutturata oggi, è dedicata  esclusivamente a competenze manageriali, di ricerca e didattiche nel campo della riabilitazione per i professionisti sanitari, incluso il fisioterapista. Quindi appare evidente che la professione non dispone di una Laurea Magistrale realmente specializzante, capace di garantire una formazione clinica avanzata e una ricerca applicata alla riabilitazione. Esistono percorsi post-laurea più specifici, come master e scuole di specializzazione, ma restano eccezioni. Di conseguenza, molti fisioterapisti cercano fuori dall’università ciò che non hanno ricevuto dentro, alimentando un mercato parallelo di corsi, spesso di qualità discutibile e fortemente orientati al marketing. Una deriva che riduce la riabilitazione a pacchetti tecnici preconfezionati, quando non addirittura a corsi di marketing mirati a “procurare pazienti”, spostando l’attenzione dalla crescita clinica alla logica commerciale. In questo scenario, il principio del treat to fix – molto in voga nella formazione extrauniversitaria per il suo appeal immediato e scenografico, più suggestivo che realmente clinico – rappresenta esattamente questa visione medicalizzata del fisioterapista, in netto contrasto con la sua reale missione e identità professionale.

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Un altro nodo centrale riguarda proprio l’ICF. La definizione è chiara, ma manca un paradigma condiviso che traduca quelle parole in pratica clinica. L’ICF ci dice cosa osservare – funzione, attività, partecipazione – ma non come interpretarle né come intervenire. Se continuiamo a leggere la riabilitazione con il vecchio paradigma meccanicista, il corpo diventa un insieme di pezzi da raddrizzare e il fisioterapista un medico mancato. Se ci limitiamo al modello biopsicosociale, rischiamo di restare in un quadro descrittivo troppo generaleE l’idea di “olismo”, pur valida nelle sue intenzioni, finisce troppo spesso per ridursi a uno slogan. Nella pratica viene interpretata come la ricerca della “causa del problema”: un concetto lineare e riduttivo, che rischia di svuotare di senso qualsiasi approccio realmente complesso. In questa direzione si colloca il paradigma della Morphological Transduction, che adotta l’approccio della network analysis. Il corpo è visto come una rete dinamica di nodi e connessioni – muscoli, fasce, articolazioni, sistemi neurovascolari – che si estende anche ad altri ambiti, legati alla vita metabolica e alla dimensione sociale della persona. Ogni nodo è definito da attributi variabili che ne caratterizzano l’individualità, permettendo di leggere la funzione non come somma di parti, ma come espressione di una trama interattiva. Questi nodi interagiscono continuamente per esprimere e adattare funzioni attraverso forme e tensioni. Non più pezzi da correggere o parametri da catalogare, ma una trama vivente che comunica, si adatta e si riorganizza, e che può essere misurata e monitorata con sofisticate analisi informatiche.

Un modello di questo tipo apre alla possibilità di un’oggettivazione dell’intervento riabilitativo che vada oltre la sola compilazione di questionari. La misurazione dei cambiamenti di rete, infatti, può trasformarsi in un linguaggio clinico verificabile e riproducibile, capace di sostenere un percorso realmente evidence-based. In questo senso, potremmo parlare di una Evidence-Based Medicine for Rehabilitation (EBMr), cioè un’estensione della EBM adattata alla specificità della pratica riabilitativa.

La riabilitazione si occupa di problematiche complesse. Per questo richiede un paradigma moderno, capace di rispondere alle esigenze di un mondo clinico che si è evoluto verso una cura centrata sul paziente, ma che allo stesso tempo sappia misurare e monitorare le variabili in gioco attraverso una logica complessa. Un paradigma che integri valutazione funzionale, ragionamento clinico, relazione terapeutica, educazione ed esperienza corporea. È proprio attraverso l’utilizzo di un paradigma complesso come la Morphological Transduction che la fisioterapia può finalmente esprimersi per quello che è: una disciplina autonoma, che non cura malattie ma accompagna le persone a ritrovare funzione, movimento ed equilibrio di vita.

 
 
 

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